28 dicembre 2007

Merry Christmas


--------------by TIO...s @ Flickr------------

13 dicembre 2007

Ti accorgi di vivere nel 2007, in Italia quando...

... ti accorgi andando a lavoro che tutti ascoltano i discorsi di tutti per capire dove si possono ancora trovare provviste di latte fresco,
....quando ti trovi bloccato in mezzo al traffico non per un incidente o dei lavori in corso ma perchè le macchine sono in coda per fare il pieno all'unico distributore ancora aperto,
... quando il benzinaro sotto casa tua chiude alle 11 della mattina nonostante la fila di gente implorante un goccio di verde e decide di prendersi qualche giorno di ferie,
...quando vedi dei camionisti tagliare la gomme ad altri camionisti, argomentando sul da farsi nonostante le decisioni del loro sindacato,
...quando realizzi che una sola categoria può paralizzare un paese dopo due soli giorni di stop.


-------------Christian Bachelier @ Flickr-------------

5 dicembre 2007

Divorzio no no no

http://www.blogger.com/img/gl.link.gifIl vostro migliore amico è in un difficile momento del suo matrimonio e non sapete cosa dirgli per fargli tenere i pezzi insieme? Se avete già provato con i "è solo un momento, passerà" e i "ripensa alle cose belle che avete passato insieme" ma non c'è stato verso di distoglierlo dalla sua idea di troncare la relazione, due ricercatori della MIchigan University hanno scoperto quello che fa per voi. Un buon motivo per non divorziare è infatti che inquina e rovina l'ambiente, traducendosi in uno spreco di luce, acqua gas&C. che può toccare fino al 61%. Una notizia che lascia tutti certamente basiti: una novità inimmaginabile il fatto che un minor numero di persone per nucleo familiare aumenti poco meno che proporzionalmente il costo, e quindi il consumo dell'abitare. Così questi scienziati si sono cimentati in qualcosa di ancora più grande: battere preti, filosofi e psicologhi nel trovare una soluzione all'amore che si spezza: risposarsi, così da ridurre di nuovo i costi, riportandoli al livello di partenza.

to get further information on the reasons why to remain with the partner


--------------------------------------- @ flickr ---------------------------------------

1 dicembre 2007

Distretti ad alta compatibilità?!

Riporto un post che ho scritto su first draft

La scorsa settimana si è tenuto a Pisa il convengo “I distretti produttivi italiani: energia e sicurezza. Cambiamo prospettiva! ” sul tema del ruolo dei distretti nel campo della sostenibilità ambientale.
L’importanza dell’attenzione all’uso delle risorse e della progettazione di prodotti a basso impatto ambientale non è certamente un argomento nuovo. Le recenti impennate del prezzo del petrolio e la nuova ondata di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema dei disastri ambientali prossimi venturi mantengono viva la materia in articoli e discussioni.
Il punto su cui ormai molti concordano è tuttavia che la questione ambiente non sia solo una materia da ambientalisti incalliti ma anche e soprattutto da oculati investitori e imprenditori.
Lo scenario proposto al convegno di Pisa sottolinea come i distretti industriali possono tradurre al meglio le sfide ambientali in opportunità economiche. Grazie l’utilizzo dei meccanismi propri del distretto - processi di coopetition, ruolo di imprese leader e processi emulativi, ruolo di attori locali aggregatori di imprese che fungono da promotori di una nuova cultura dell’utilizzo dell’ambiente e soggetti attivi nella ricerca e nel trasferimento tecnologico - e grazie a una crescente attenzione da parte degli attori istituzionali nel sensibilizzare i contesti locali sugli scenari di evoluzione futuri, è possibile immaginare un’evoluzione del sistema locale che mantenga la competitività delle imprese distrettuali sui mercati internazionali e che metta in moto un processo di innovazione ambientale economicamente sostenibile. Il distretto, forte della sua dimensione relazionale e cooperativa, potrebbe rappresentare uno spazio ideale per l’innovazione tecnologica e per la diffusione di best practice in questo ambito.
In concreto, una proposta di intervento per l’efficienza energetica a livello territoriale è stata prospettata per il distretto conciario di Santa Croce sull’Arno e vedrà il coinvolgimento di imprese, attori istituzionali, fornitori di tecnologie e soggetti finanziatori in una logica di cooperazione tra pubblico e privato. Sarà interessante andare a capire nel futuro prossimo gli sviluppi di tale iniziativa.

22 novembre 2007

Eco-case: business futuribile o possibile?

Case belle, eco-friendly e poco costose!?
Possibili secondo il progetto di Symbola e Mario Cucinella, che sarà proposta oggi alla Fiera Campionaria a Milano.
Il risparmio avviene, nell'idea dei creatori, grazie alla presenza dei pannelli solari che coprono il tetto e che in dieci anni, grazie alla vendita di elettricità e il risparmio, ripagano l'impianto trasformandolo poi in una rendita (di 1.860€ l'anno)
Il progetto consiste nella progettazione di una casa che sia, inoltre, altamente personalizzabile ma anche "socializzabile": l'idea è quella di rendere possibile la messa in comune di alcune strutture, i costi delle quali possano essere così condivisi, riducendo così sia i costi che i consumi pro-capite.
Quindi, la casa sostenibile trasforma le problematiche dell'abitare, i costi, i consumi e le emissioni, in opportunità grazie al fotovoltaico e alla progettazione che permette gli amenities-sharing.
Ma sarà proprio vero che il fotovoltaico basterà per ripagare i costi? Che basterà per rendere la casa veramente eco-friendly? Mi sembra che l'obbiettivo di questo progetto sia troppo legato alla possibilità di vendere l'energia fotovoltaica, realtà che in Italia è ancora troppo incerta.
Forse la via più praticabile e efficace è la proposta di Greenpeace&C. per ridurre i consumi combattendo gli sprechi energetici.

to get more info. http://www.repubblica.it/2007/11/sezioni/ambiente/casa-ecologica/casa-ecologica/casa-ecologica.html

12 novembre 2007

triste attualità

Ma un ultrà derubato chiama la polizia?

9 novembre 2007

PETRO FEVER

E' da più di una settimana che, su tutti i giornali, la bagarre attorno al prezzo del petrolio non si schioda dalla sua posizione in prima o seconda pagina. Che motivo dietro a tanto rumoring? Il petrolio ha infranto un prezzo simbolo: 100 dollari al barile e si sa che i numeri tondi fanno sempre molta impressione, ma non è tutto qui.

Oggi ho scoperto che qualcosa di nuovo c'è effettivamente dietro a questa ultima corsa pazza al rialzo. Actually, dietro a molta parte di questo scenario c'è la paura stessa che si realizzi. Le recenti previsioni negative dell'AIE , insieme ad altri avvertimenti simili sul clima, sembrano avere infatti un impatto effettivo sull'economia mondiale.

Bene? Not really, perché quello che hanno provocato sono al momento solo le speculazioni di famelici trader che scommettono sul rincaro del petrolio comprando contratti d'acquisto che lucrano sulla scommessa che il prezzo salirà (il che non necessita di una grande propensione al rischio a dirla tutta). Il prezzo di questi future va poi a influenzare anche il prezzo reale, che risulta così gonfiato non solo per le politiche dell'OPEC e la crescita esponenziale dei consumi, soprattutto nella Cindia. La classica storia della profezia che si auto-avvera.

Insomma, le analisi mondiali non riescono a risollevare le sorti dell'approccio alla sostenibilità ambientale, ma almeno riusciranno a far ridurrre i consumi, innescando involontariamente un meccanismo che, aumentando il costo opportunità del petrolio, funga da carbon tax riducendone i consumi?


.................the firing debate must go on..................

8 novembre 2007

UN PO' DI ATTUALITA' PER RICOMINCIARE

In giorni in cui le ipotesi su quale sarà la versione definitiva della finanziaria impazzano, faccio anche io le mie previsioni su quali saranno i punti fermi, sperando di vincere la schedina.

"Per aggirare la trappola berlusconiana, pare che il governo stia preparando tre emendamenti alla finanziaria. Eccoli in anteprima.

Tetto agli ingaggi. L'opposizione non potrà promettere più di 250 mila euro a un senatore di maggioranza, 275 mila a un ministro e 300 mila a un leader di partito. Nuove regole anche per le vendite in blocco dei gruppi: fino al 5 gennaio saranno proibiti i saldi.

Introduzione della ricevuta fiscale. Il parlamentare che riceve compenso per il proprio voto dovrà rilasciare ricevuta fiscale. Al terzo scontrino no rilasciato scattano la chiusura del collegio e il ritiro della tessera per lo stadio.

Sconti ai pendolari. I parlamentari che fanno la spola tra i due poli avranno diritto, se la piantano, a una consistente riduzione sul biglietto delle montagne russe (l'unico mezzo di trasporto che ancora pagano di tasca propria)
."

"Bonsai" di Sebastiano Messina, così su La Repubblica del 8.11.07

.......l'economia nazionale, nell'attesa, ringrazia......

28 maggio 2007

Tecnologie made in America

Come se la passano a tecnologie le aziende americane?
A quanto pare molte di esse hanno capito le potenzialità offerte dalle tecnologie, ma non di tutte. Prima fra tutte, come d'altronde anche in Italia, c'è l'utilizzo dell'e-mail; però, sorpresa, non tutte le aziende ne fanno uso, preferendo ancora i tradizionalissimi telefono e fax. Più del 60% invece ha un sito internet, che per il 22% circa delle aziende è anche un mezzo per effettuare l'e-commerce, utilizzato principalmente per aumentare le clientela.
Il dato è ancora più interessante se si considera che la dimensione media delle aziende americane intervistate non è grandissima, (92 dipendenti vs. 74 delle aziende italiane).
Fatta eccezzione per l'utilizzo della banda larga, le tecnologie che seguono, nella classifica, e-mail e sito internet, sono EDI, intranet e corporate banking.

24 maggio 2007

Vantaggio competitivo?

Su cosa si basa il vantaggio competitivo delle aziende del tessile e abbigliamento del North Carolina? Ma sorattutto come si posizionano questi fattori in confronto con i responsi delle aziende italiane?
A quanto pare vincitore indiscusso, in America, è un vantaggio da riduzione dei costi. Niente che ci stupisca in effetti, visto che tutti gli operatori confermano che nel mercato americano il fattore principale sul quale si combatte per conquistare i consumatori è il prezzo.
Non il design, non la qualità, il prezzo.
Solo in terza posizione troviamo, invece, l'innovazione, che è in pole position per le aziende del T&A di molti dei più importanti distretti italiani. Importante sembra essere anche il servizio al cliente, fattore sul quale, invece, molte aziende italiane sembrano puntare in maniera minore.
Cosa si può ricavare da queste affermazioni? Sicuramente una conferma della differenza nel mercato finale tra i due paesi e quindi nel differente focus delle aziende americane vs. italiane. Ma allo stesso tempo anche una somiglianza: forse che le aziende del tessile&abbigliamento abbiano realizzato che sia indispensabile, per rimanere competitivi, puntare su innovazione, servizio e qualità (quarta per le americane ed invece seconda per le italiana)?

17 maggio 2007

Road trip #4



La quarta e ultima azienda visitata è stata uno dei casi più interessanti, sia perchè leader indiscusso del suo settore, la calzetteria, sia perchè sta intraprendendo dei percorsi di sviluppo molto interessanti e molto simili a quelli che ritroviamo in italia. Per onor del vero, bisogna dire che uno dei motivi alla base di questa somiglianza è anche il fatto che l'azienda è da poco parte di un gruppo facente capo ad un'azienda italiana di successo.

A differenza della stra grande maggioranza delle aziende americane del settore, quest'impresa ha aperto (questa settimana) un punto vendita mono marca. Inoltre ha deciso di puntare su un ampliamento della propria gamma produttiva per presentarsi sul mercato non più solo come azienda di calzetteria, ma come azienda del fashion più in generale.

Per finire, non poteva mancare, per il parallelo con l'Italia, una citazione sul design, vantaggio competitivo principe dell'azienda, con tanto di intero ufficio (a new york ovviamente) dedicato allo sviluppo di idee creative.

16 maggio 2007

Road trip #3



A chi non avesse ben chiaro cosa si intende per integrazione verticale, consiglio di visitare un giorno uno stabilimento di produzione di filati in nylon o polyestere, magari uno americano, come quello che ho avuto modo di visitare. Il processo di produzione è assolutamente capital intensive e molto, molto sofisticato. L'impianto che ho visitato è il più grande di una delle multinazionali del settore: a partire dal settimo piano in giù, mi è stato possibile vedere la produzione che parte da un piccolo granello di POY per arrivare a un filato finito e confezionato, sulle specifiche del cliente, pronto per essere spedito al richiedente.

L'azienda è passata in dieci anni a ridurre di un quarto la produzione. Ma non si può dire che si comporti passivamente nei confronti di queta situazione: anzi. La corporation è un buon esempio di come si può innovare, anche quando il proprio prodotto è relativamente commodity e "lontano dal mercato finale". L'azienda infatti investe molto in R&S, che la portata alla realizzazione di prodotti altamente specializzati (anti UV, anti odori,...) e sempre più performanti (tutti i prodotti sono anche certificati ISO). Ancora più interessante, se non altro per l'originalità, è il fatto che ha creato dei brand per i propri prodotti, che pubblicizza presso il mercato finale, per aumentare l'awareness del proprio prodotto e quindi fare pressione sui propri clienti diretti.

Riuscirà la nostra impresa a sopravvivere al fatto che il proprio mercato finale si sta spostando tutto fuori dai confini americani (e una volta lì non sembra porre troppa importanza sulla qualità)?
Chi vivrà vedrà. Nel frattempo consiglio di vedere il loro sito

12 maggio 2007

Road trip #2

Anche i grandi conquistatori americani sono stati colonizzati da più di qualche FDI.
Io ho avuto la fortuna di visitare lo stabilimento di uno dei più grandi produttori di macchinari per il tessile al mondo. Il gruppo ha sede in Germania, ma ha stabilimenti anche in Cina, India, Italia e tra gli altri, North Carolina, proprio al centro di quello che loro hanno riferito essere "per il tessile quello che la mecca è per l'islam".

L'azienda è leader indiscusso. L'unico loro problema è avere il 100% di un mercato 0%. L'azienda è competitiva, ma è il suo mercato finale che scarseggia. Con lo spostamento della produzione nei paesi dell'est asiatico (anche qui è la Cina a rappresentare lo spauracchio maggiore) il loro mercato finale, che è prevalentemente gli US (per lo stabilimento americano), si è ridotto a vista d'occhio.

Uno dei loro punti di forza è il servizio ai clienti (ragione per cui continuano a restare nel mercato americano) e la continua innovazione(a livello corporate). Uno dei mercati in cui investono di più è il non-woven: la loro sensazione è che questo comparto sarà l'unico a restare negli US, mentre tutto il resto si trasferirà oltreoceano.

......we suggest to visit http://www.truetzschler.com/home/ ....

road trip #1



Italia piccola Italia, ma onnipresente nel mondo! La prima azienda che siamo andati visitare è una produttrice di calze e calzini: medio piccole dimensioni, una probabile quota di mercato che non supera il 2% (l'80-90% del mercato è coperto da due sole grandi aziende!), vende soprattutto a due dei maggiori colossi americani: wal-mart e J C Penney. Cercano di innovare, e stanno cominciando a produrre una nuovo brand, indipedente da quello che vendono ai propri clienti maggiori, ma sembrano essere abbastanza vincolati dalla relazione con questi grandi retailer.

Che cosa c'entra l'Italia con tutto questo?
C'entra un bel po', visto che metà di quello che vendono ai Wal-mart di turno proviene da Pompea: l'azienda americana importa questi prodotti (che non è in grado di realizzare perchè non ha i mecchinari necessari), provvede al packaging e spedisce il tutto direttamente ai clienti.

Nel complesso l'azienda non sembra male, i CEO e proprietari hanno una visione tutto sommato positiva del loro futuro, anche se riconoscono la propria posizione nel mercato. La cosa più interessante tuttavia, sembra essere il modo in cui gestiscono la loro catena del valore: relational con i loro fornitori (italiani compresi), captive con i propri clienti.

Dimenticavo. L'azienda ha internalizzato completamente i propri sistemi informativi: dopo una brutta esperienza con ERP ed altri software di tipo proprietario, l'azienda ne ha svilupatti di propri, internally, che sono un fit migliore per la loro attività. Così fit che li hanno venduti anche ad altre aziende.

7 maggio 2007

web sì, tecnologie di rete no

A quanto pare il diffuso utilizzo della banda larga negli US produce effetti positivi anche per le aziende del tessile. Penso sia questa infatti una delle spiegazioni piu' plausibili al differente utilizzo delle tecnologie dalle aziende qui in NC. Tralasciando il caso delle grandi aziende, che e' scontato utilizzino molte tecnologie, e' interessante secondo me analizzare come si comportano le piccole medie imprese, sia perche' sono la maggioranza, sia perche' sono le piu' paragonabili all'italia.
Dunque, se come ho gia' commentato, sembra che non utilizzino tecnologie di rete (ERP, CRM, SFA,...) allo stesso tempo, pero', molte di esse sembrano avere un sito internet, che qualcuna utilizza anche per vendere on-line(e non solo prodotti di nicchia). Da questo punto di vista mi sembra di scorgere una differenza con l'Italia, dove spesso quando si cercano informazioni sulle aziende via google, l'unico risultato e' il sito delle pagine gialle!

Waiting for the figure to confirm these hypotheses!

3 maggio 2007

exportiamo?

Che l'Italia sia un'economia fortemente orientata all'export è cosa risaputa. Il made in Italy ha da sempre puntato ai mercati esteri, a volte più di quello interno.
Non stupisce quindi che in America, e più in particolare qui in North Carolina l'export sia una dimensione molto minore. Tuttavia mi sembra interessante soffermarsi sui motivi che possono spiegare una differenza che è, pur se si parla degli stessi settori, davvero rilevante.

Prima di tutto secondo me gioca un ruolo fondamentale la dimensione del mercato interno (gli US rappresentano un mercato che può essere paragonato all'intera europa più che alla sola Italia). Anche il tipo di produzione può fornire valide spiegazioni: prodotti di nicchia vs commodity richiedono un mercato di dimensioni diverse.

Che possa essere utilizzata anche una spiegazione geografica? Per esportare dall'Italia basta attraversare le Alpi o spedire una nave a poche ore di distanza, dall'America bisogna, invece, affrontare viaggi più importanti. Se però l'export italiano del T&A è abbigliamento è maggiormente o comunque considerevolmente verso l'estremo oriente o altri stati dall'altra parte del globo, questa possibile spiegazione perde di importanza.

Un ultima differenza a cui riesco a pensare è quella della tipologia di produzione, o meglio, di fase della catena del valore, e cioè fasi a monte (NC) versus fasi a valle (Italy) della catena del valore del tessile e abbigliamento.

C'ho azzeccato? Something missing?

1 maggio 2007

tecnologie, america e luoghi comuni

Strano ma vero! A quanto pare qui in America di tecnologie se ne intendono come, se non meno, delle nostre aziende made in Italy. O almeno questo è quello che dichiarano i boss delle aziende del tessile e abbigliamento (più tessile che abbigliamento in effetti) della North Carolina.

Da uno sguardo parziale alla ricerca che stiamo svolgendo, pare che molte delle imprese non abbiano tecnologie pi avanzate che l'utilizzo dell'e-mail. Alla domanda "avete un sistema ERP e\o CRM" la risposta più gettonata è "what?". Per quanto riguarda Skype la percentuale è ancora più bassa. Mi sembra di capire, infatti, che non è molto diffuso neanche al di fuori dell'ambiente aziendale: pochissime persone qui lo usano per scopi personali!! E simili risposte sono state ottenute anche per quanto riguarda tutto il resto del lungo elenco di tecnologie. Molti CEO, quando intervistati, hanno spudoratamente dichiarato che di tutte queste tecnologie loro non ne sanno niente, e tanto non ne vogliono neanche sapere, visto che per il loro business "non servono"-

Sicuramente il campione che abbiamo utilizzato non è un granchè significativo, visto il basso numero di risposte in relazione al totale di aziende del T&A in NC, ma sicuramente dobbiamo essere stati davvero sfortunati nella scelta del campione se il risultato che stiamo ottenendo è di molto diverso dalla media settoriale.

Che la scarsa propensione alla tecnologia sia un caratteristica solo del tradizionale e in crisi settore del tessile & abbigliamento? Sarebbe interessante verificarlo, se non altro per il gusto di sfatare un mito negativo relativo alle aziende italiane.

28 aprile 2007

Se l'università fa ricerca per le imprese, davvero

Il rapporto che il College of Textile ha creato, grazie al suo operare nel settore da lunga data, è ancora più stretto di quello che si può intuire ad una prima analisi superficiale. Quando ci si riferisce ad un istituzione che fa ricerca & sviluppo per un settore, infatti, si pensa di solito ad un tipo di ricerca primaria, in qualche modo basilare: nozioni o innovazioni di tipo generico, applicabili e utilizzabili da tutte le imprese nazionali. Quello che realizza il College of Textile, invece, è ancora più fruibile; è company-oriented.
Lo spunto per le nuove ricerche e approfondimenti, infatti, non parte da un idea nata nel mondo accademico ma da un reale bisogno o interesse di un imprese. E qui sta la principale differenza. Nel college l’idea parte da una specifica azienda, interessata a sviluppare un nuovo prodotto ma che non ha le strutture necessarie per portare a termine un progetto, incerto per natura visto che si parla di ricerca, che necessita di molte risorse, a partire da quelle umane e di tempo. Le aziende si fanno così carico di finanziare il master o PhD. degli studenti del college, in cambio di uno studio su uno specifico ambito individuato dall’azienda in base a quelli che sono i suoi progetti per le innovazioni in azienda.
Al termine del periodo di ricerca, ogni studente presenta alla “propria” azienda il frutto del suo lavoro, che se non sempre sfocia poi in un prodotto finito per il mercato finale, spesso fiisce però con un assunzione all’interno dell’azienda stessa.

Che aziende traggono vantaggio da questo tipo di innovazione? Il raggio d’azione del College varia a seconda dei programmi in questione, ma è sicuramente impressionante. Il programma NCRC (Non Woven Cooperative Research Center) , è il più interessante a riguardo: le aziende che ne sono finanziatrici attive, sono grandi corporation americane, ma anche aziende di più modeste dimensioni provenienti dai dintorni, così come aziende tedesche o cecoslovacche.
Per quanto riguarda, l’istituto, di più antica data, delle tecnologie del tessile (ITT) , le aziende parti del network sono, invece, tutte basate in America, mentre il NTC (National Textile Centre), è il programma più tradizionale tra tutti quelli elencati in questo senso. Questo centro di ricerca, infatti, è finanziato con fondi pubblici per supportare dei progetti ideati dagli esperti del centro, i quali vengono poi pubblicati pubblicamente in modo che tutto il settore possa trarne vantaggio.

Dunque, un bel po' di finanziamenti, e un bel po' di buone idee per chi volesse prendere spunto per le istituzioni nostrane.

26 aprile 2007

Se l'universita' fa ricerca per le imprese...

se l'universita' fa ricerca per le imprese, davvero la presenza di un istituto di ricerca nella zona fa la differenza. Quello che ho avuto la possibilita' di visitare io, penso sia solo uno dei tanti ma mi fornisce un valido esempio per supportare l'idea di quanto un universita' possa essere utile per il territorio in cui si trova. Il College of textile, infatti, va fiero di essere considerato quasi la sede distacata di un laboratorio di ricerca&sviluppo di ogni azienda, disponibile per le company dello stato, sempre pronto ad orgqanizzare convegni ma soprattutto ad "anticipare" le nuove tendenze o potenzialita', per fornire alle aziende un valido supporto, non solo in termini teorici, ma anche empirici e applicativi.

Studenti e professori si spremono le meningi per trovare nuove soluzioni alla crisi del settore, puntando su nuovi prodotti performanti o nanotecnologie. Magari molte di queste applicazioni saranno fin troppo raffinate per entrare davvero in un mercato, oppure saranno poco commercializzabili per qualche altro motivo, ma l'idea di fondo e' che lo sforzo di studenti e faculty e' tutto diretto ad "appoggiare" le aziende.

Stesso atteggiamento anche in italia? sara' che da noi non ci sono istituti specializzati in un settore particolare come invece sembrano essercene negli States, pero' non mi sembra che la differenza stia tutta qui.

19 aprile 2007

Soluzione

A differenza di quanto potrebbe suggerire l'apparenza, le fotografie di ieri sono state scattatte all'interno di un universita', piu' precisamente la North Carolina State University, durante l'open day del college of Textile. Uno dei pochi al mondo, questo college e' completamente focalizzato sullo sviluppo di figure professionali che possano portare valore aggiunto alle moltissime aziende del tessile&abbigliamento del North Carolina. C'e' ovviamente piu' di un curriculum all'interno del college, ma gli indirizzi principali riguardano il "fashion", simile alle nostre scuole di moda. Gli studenti di questo corso si sbizzarriscono a creare nuovi modelli e a realizzarli, grazie anche ai macchinari a cui hanno libero accesso di cui le foto di ieri erano solo un assaggio, che si trovano all'interno dell'edificio stesso dove seguono i corsi. Altro indirizzo e' quello piu' tecnologico, studi di chimica e fisica, quasi un "ingegneria del tessile" per studiare le caratteristiche dei tessuti e svilupparne di nuovi dalle migliori performance. Infine un terzo indirizzo e' piu' di management, nel quale gli studenti studiano le caratteristiche del settore qui in North Carolina, analizzano le strategie dei grandi player del mercato e nuovi mercati e possibilita' di sviluppo.
Durante questo open house day ognuno dei PhD o grad student ha presentato, a termine di un ciclo di brevi interventi, il proprio progetto di ricerca, ad un pubblico di aziende(potenzialmente interessate ad acquistare i prodotti o le soluzioni da loro presentate) e di professori del loro college o provenienti d aaltra universita' del circondario....
vedere per credere...

18 aprile 2007

Indovinello


Indovinello: dove credete possa aver fatto queste fotografie?





April 16th, the black

http://www.vt.edu/
http://rosa.hosting.vt.edu/index.php/memorial/

17 aprile 2007

ingrosso o produzione? questo è il problema

La prima volta che ho sentito parlare di wholesale come categoria definitoria dell'attività di alcune aziende del tessile&abbigliamento in North Carolina mi sono stupita moltissimo che nella definizione che danno qui negli States si facciano rientrare quelle che qui da noi sono invece diverse categorie. Perciò mi sono messa ad argomentare che un conto è l'ingrosso e un conto diverso invece bisogna fare per catalogare quelle aziende che si fanno in qualche modo "importatrici" di prodotti fatti da altri (specialmente, neanche a dirlo, da aziende con gli occhi a mandorla), ci appongono un etichetta e poco più e il prodotto è bello che pronto.
Errore definitorio, episodio archiviato. Se non che la faccenda è tornata di nuovo alla mia attenzione per una seconda volta, ma questa volta supportata da dati provenienti dalla, già citata, survey. A quanto pare la popolazione delle "hollow corporation"(etichetta che secondo me meglio spiega, tra quelle "disponibili", quello che intendono qui come uno dei sottoinsiemi dei wholesalers) non è proprio sparuta, e cosa che secondo me è ancora più rilevante, è formata anche da aziende di nuovissima formazione.
Il che apre lo spazio a moltissime riflessioni e punti di domanda.
Stiamo individuando una nuova tipologia di upgrading che le aziende della NC stanno intraprendendo per sfuggire dalla race to the bottom contro Cina&CO? ma poi, è una via di successo e percorribile? Qual'è la numerosità del fenomeno e il trend? Perchè il nome di queste aziende non è venuto fuori dalla lista di aziende che come attività principale hanno il retail o l'ingrosso, ma da quelle che sono catalogate come aziende "produttive", sulla base dei codici di classificazione delle attività economiche NAICS. Il che può suggerire che quello che sto scorgendo è solo la punta dell'iceberg.
E' dunque un'attività verso la quale le aziende si sono spostate nel tempo, perchè hanno visto la possibilità di maggiori profitti (magari visto che la via del design o di un maggior investimento in R&S non erano considerati percorsi di sviluppo a portata di mano) oppure è, di nuovo, un semplice errore classificatorio per un piccolo gruppo d aziende di produzione ai confini tra due categorie di attività economiche diverse?
Dal canto mio cercherò di approfondire, considerati i potenti mezzi che può fornire una ricerca quantitativa, quale sia l'entità e la consistenza del problema, perchè secondo me può è un argomento interessante e dalle molteplici implicazioni. In the meanwhile, I'll be eager of comments and suggestions.

12 aprile 2007

Out of business

Questa settimana e' iniziata, qui al CGGC, a pieno ritmo la survey "networks and technology for small and medium-sized companies". Parlare di risultati a questo primo stadio e' prematuro, ma gia' qualche indicazione utile si puo' estrappolare dalle prime telefonate effettuate. Infatti, una buona parte delle aziende alle quali abbiamo chiesto di partecipare a questo progetto di ricerca, ha declinato adducendo il fatto che l'azienda sta andando out of business.
Scusa bella e pronta per scansare una lunga serie di domande? Forse, ma non solo, visto che la stessa risposta l'hanno data anche aziende che hanno accettato di collaborare in questo progetto. Secondo me, invece, e' un indicatore del grado di di ristrutturazione che il settore del tessile e abbigliamento sta subendo in quel del North Carolina. Essendo la ricerca, infatti, svolta solo presso aziende che hanno stabilimenti produttivi in questo stato, questo tipo di risposte possono rispecchiare un trend (che del resto non stupisce piu' di tanto) di chiusura di stabilimenti, per ridimensionare la produzione aziendale o per trasferirla all'estero, ma magari anche per spostare le operation in altri stati all'interno degli US.

... waiting for more results to understand the trends....

28 marzo 2007

Globalizzazione, multinazionali e condizioni del lavoro: consigli per l`uso

Qual'è il primo esempio (stereotipato) che vi viene in mente di multinazionale che sfrutta i prorpii lavoratori? Senza ricorrere alla magia, sono sicura che pensiamo tutti alla stessa: una delle prime grandi aziende che ha sofferto un forte contraccolpo dopo che l'opinione pubblica ha scoperto che molti dei suoi prodotti erano realizzati sfruttando lavoro minorile. Ma tutto questo avveniva nel passato. Come se la passano ora i sub contrctor di questa azienda che possiamo usare come esempio più generale di multinazionale che delocalizza in paesi emergenti? Perchè si parla di globalizzazione e si pensa subito alla produzione all'estero, ma quello che bisogna riconoscere prima di tutto è che la produzione si basa sul lavoro, che è quindi uno dei settori chiave da analizzare e monitorare se si vuole veramente parlare di effetti della globalizzazione. Quello che una recentissima ricerca, svolta "sul campo" da ricercatori e studenti MIT cordinati da R. Locke, ha scoperto, e` che ci sono moltissime differenze tra i diversi sub fornitori. L'azienda infatti ha predisposto delle condizione di lavoro minime che richiede di rispettare ai propri sub fornitori e svolge delle ispezioni per verificare che questi requirement siano rispettati. In termini di qualità del lavoro le differenze riscontrate dipendono soprattutto dalla nazione in cui sono svolti ma anche dalla dimensioni (piccolo è meglio: sorpresa?), dalle modalità e soprattutto la frequenza con la quale l'azienda controlla se i contractors fanno lavorano effettivamente come dichiarano di fare. Il risultato più interessante dell'analisi è un riconoscimento del fatto che il sistema di monitoraggio messo in piedi dall'azienda non ottiene per niente lo scopo: alcune aziende che investono nell'apprendimento dei dipendenti e si curano delle loro condizioni risultano avere un tasso di affidabilità (sempre secondo il metro della multinazionale, che si basa sul controlllo di norme e procedure) minore di quelle che fanno l'opposto. Morale della favola: se davvero si vogliono migliorare le condizione dei (propri) lavoratori in giro per il mondo bisogna sì monitorare le loro condizioni, ma rivedendo il sistema tradizionale informazioni-incentivi in modo da poter meglio indirizzare i comportamenti dei sub cotractors verso l'impiego di un lavoro più decente.

27 marzo 2007

The american way al design?

Italia terra del design? Sì, ma forse non resterà a lungo isolata in vetta alla classifica degli stati "design-oriented". Infatti, udite udite, perfino nella terra di Henry Ford è penetrata l'idea che il design possa essere una delle fonti principali del vantaggio competitivo. Insomma, anche qui in America le aziende hanno cominciato a chiedersi come fare per poter competere con le potenze economiche emergenti, che hanno strutture dei costi completamente diverse.
Per dare maggiore concretezza a queste affermazioni ecco alcuni dati che sono assolutamente illuminanti a riguardo. Il 72,7%(di 707 CEO intervistati) afferma che il design sia un'arma competitiva chiave contro le importazioni low-cost, e ben il 90,3% concorda che il design è una disciplina che il top management deve comprendere e padroneggiare. E per quanto riguarda le modalità di gestione-implementazione? l'81,1% afferma che il design non è materia da essere relegata meramente
ad un ufficio-design.
Notizie ancora più interessanti se si considera che queste percentuali variano di molto rispetto a quello che i CEO considerano essere il punto di vista delle loro aziende alle stesse domande (rispettivamente 49.3%, 48.1% e 52%). Il che sta a significare, secondo me, che anche se per il momento il "fenomeno design" in America non è molto importante ed è concentrato in alcune zone particolari (il nord sembra farla ancora da padrona) il futuro può prospettare orizzonti diversi. I CEO hanno afferrato dove sta il maggior valore nella loro catena del valore: tempo di impostare il cambio di rotta nella loro azienda, e le aziende italiane si troveranno alle calcagna una nuova flotta di agguerriti concorrenti che cercheranno di sfidarle giocando nel loro steso campo: design&creatività.
E i nostri imprenditori non posso nemmeno consolarsi pensando che questo scenario sia solamente un'ipotesi futura: le acque si stanno già muovendo e qualche azienda è già entrata in questa prospettiva. E cioè quella di competere utilizzando arte e design per andare incontro ai gusti dei consumatori e per creare un'identità di prodotto (in questo senso anche la pubblicità e il packaging sono considerati all'interno della definizione "design") o d'impresa.
Ancora titubati sull'esistenza di qualche azienda, magari dei settori tradizionali che stia effettivamente puntando (e ottenendo consensi) giocando in questo campo? Allora potrebbe essere interessante visitare il sito di questa azienda di porte del Montana, che costruisce i propri prodotti a partire dalle richieste dei consumatori e che ha scommesso sulla collaborazione con alcuni artisti. E i numeri le stanno dando ragione: in 4 anni ha raddoppiato il numero di occupati e le vendite.
Nuova sfida per le aziende italiane?

Nel prossimo numero inview su design e North Carolina e sui cluster creativi.

Who's behind these data?
http://www.rtsinc.org/
Stuart Rosenfeld

26 marzo 2007

Alla ricerca del lavoro decente

La traduzione italiana, come accade molto spesso non rende molto, e questo che sembra un esclamazione di un neo-laureato italiano (...), in realtà è il titolo di un agenda che si propone uno scopo molto importante: assicurare un lavoro dignitoso ad ogni lavoratore al tempo dei network di produzione globale.
Lo scorso 16-18 Marzo, presso il center on globalization, governance & competitivness ella Duke si è tenuto un workshop, organizzato dall'ILO su questo tema, con lo scopo di coordinare future ricerche e condividere quelle scoperte passate, in modo da fornire dei validi supporti ai policy makers per analizzare e agire nei confronti dei cambiamenti che la globalizzazione sta apportando al mondo del lavoro. Il lavoro nel mondo, infatti, è uno dei settori che ha visto maggiori cambiamenti legati alla globalizzazione; questa organizzazione ha deciso di lanciare questa agenda nel 1999, per analizzare la qualità e quantità del lavoro globale, focalizzandosi sui pilastri: occupazione-diritti-protezione-dialogo sociale. Per favorire l'approccio sistematico alla problematica, il ristretto gruppo di partecipanti è stato scelto favorendo l'eterogeneità: membri dell'ILO, docenti della Duke, dell' MIT, studiosi di geografia economica e di scienze comportamentali, economisti e sociologi. Uno dei punti focali nell'analizzare le problematiche dello sfruttamento è stata la considerazione del ruolo centrale delle grandi multinazionali. Sotto vari punti di vista sono emerse evidenze che puntano il dito contro i grandi buyer o producer globali che pressano i produttori per ridurre i costi. Tra le varie, interessantissime, presentazioni di esponenti accademici, è brillata la testimonianza di un manager, per l'esattezza il capoccia dei Duke stores, azienda che, forse non tutti lo sanno, ha un fatturato davvero invidiabile. Interessante è stato quindi sentir parlare un accusato delle accuse. Assieme ad altri negozi delle università americane, infatti, gli Duke store sono stati coinvolti in una sorta di scandalo quando si è scoperto (gli americani sembrano un po' ingenui....) che i loro prodotti erano ottenuti (anche) attraverso del lavoro non proprio decente. Da quello scandalo è scaturito una sorta di tentativo di redenzione (sembra sincero comunque) nella quale la Duke (store) si è messa d'impegno per cambiare la situazione cercando di migliorare le condizioni dei propri licenziatari. Il risultato è una "carta dei diritti", che ance i negozi delle altre università dicono di rispettare, nella quale si specifica che per essere licenziatario si devono rispettare (almeno) alcune condizioni minime "anti-sfruttamento". Happy end?? Non proprio. A una verifica del suddetto capoccia è risultato che-perchè non ci stupiamo?-la situazione non è poi così tanto cambiata. Se le grandi aziende (alias catene delle università, ma questo nome è intercambiabile con mille altri) mettono una fortissima pressione competitiva sui loro produttori, è inutile che chiedano anche che essi rispettino condizioni di lavoro minime perchè queste non sono conciliabili con i bassi costi richiesti. Parola di licenziatario.

.... to be profusely continued....

22 marzo 2007

Quando si parla di tecnologie complesse come le nanotecnologie, le persone in grado di "maneggiarle" ed utilizzarle per farne dei prodotti innovativi si contano sulle dita di una mano. Ecco perché in questo settore è importantissima la presenza di istituzioni e centri di ricerca qualificati, che possano fornire input alle aziende.
Da questo punto di vista quindi, si capisce come la North Carolina abbia una marcia in più rispetto a altre location: non a caso una delle cose che rende più famoso lo stato (oltre alle squadre di basket....) è il research triangle, che prende il nome dalla presenza di 3 grandi e rinomate università distanti l'una dall'altra solo poche miglia. La NC ha quindi, sempre secondo quanto detto alla conferenza di cui sotto, un grande vantaggio potenziale, che però non sfrutta a pieno. Questa enorme capacità di innovazione trova un limite in una ricerca che resta più accademica che applicativa.
Le nanotecnologie rappresentano quindi una sfida non solo per le aziende ma anche per le università: una sfida che porti a riconoscere che educazione e workforce devono essere dinamici, e che l'abilità di diversificare si dimostrerà necessaria per il successo.
Molti degli attori delle aziende nanotech vengono proprio dal mondo dell'università, che affiancano aziende di piccole-media dimensioni con la ricerca condotta nei propri laboratori. Ma il ruolo delle università in NC non si ferma qui. Una delle cose che più mi ha colpito alla conferenza è sentire parlare di un diploma in nanotecnologie, presso il Forsyth Technical Community College:
due anni di studio per preparare workforce con le conoscenze e le capacità necessarie non per entrare nel mondo delle ipotesi e delle idee, ma nel mondo del lavoro, e dell'applicazione e commercializzazione di questi prodotti nano.

Nanotech Curricolum Info:
http://www.ncnanotechnology.com/public/nanotechnology/Forsyth-Tech.asp

21 marzo 2007

NC-NT (North Carolina-NanoTech)

La North Carolina sembra più che interessata a rendere questo binomio un dato di fatto: sembra esistano molte associazioni, enti, università e simili che si stanno focalizzando sullo studio di queste nuove tecnologie. Ma, notizia ancora migliore, non si vuole solo studiare ma anche applicare. Esistono più di 48 nano-company che operano nello stato e sembra che il trend sia in continua crescita.
E' già stato realizzato qualche prodotto nanotech? not, yet , ma sembra che il tempo per vederne qualcuno negli scaffali non sia pochi così lontano o meglio, molti sforzi sono volti in questa direzione. Durante la seconda conferenza annuale della NC sulle nanotecnologie ho avuto modo di tastare con mano come le istituzioni e le aziende del settore stanno cercando di concretizzare questo sforzo. Meglio sarebbe, in realtà, parlare di settori: infatti le nanotecnologie sono una definizione sotto la quale ritroviamo più di uno degli industry tradizionali: biotecnologie, computing, farmaceutico,...e molti di questi erano rappresentati nell'audience della conferenza. Vista l'interdisciplinarità della materia, terreno fertile per lo sviluppo di aziende in questo ambito è un territorio dove si ritrovino importanti conoscenze e skill in diversi settori. Quanto Robert Mc Mahan ha sostenuto, è che si formano perciò dei cluster, e la North Carolina è stato uno dei primi stati in America ad investire in questi cluster. Gli stati diventano così key driver per una R&D di tipo collaborativo.

Come sta affrontando questa nuova sfida la NC e quali sono i suoi punti di forza e debolezza?
Lo saprete alla prossima puntata!

While waiting for next post:
www.ncnanotechnology.com
www.nanonexus.org

20 marzo 2007

Ingegneri in salsa cinese

Vivek Wadhwa e Ben Rissing sono due ricercatori della Duke University che hanno approfondito un'interessante tematica che può essere collegata alla globalizzazione: i nuovi entrerpreneurs d'America sembrano essere sempre meno americani. Un numero tra tutti: il 25,3% delle nuove aziende fondate in America tra il 95 e il 05 ha tra i fondatori almeno uno straniero.
I due studiosi, andando controcorrente rispetto alle tradizionali metodologie accademiche, hanno confezionato in tempo record una ricerca che dimostra, inoltre, come paesi quali Cina e India stiano investendo molto più degli USA nello sviluppo di nuovi ingegneri (anche se meno di quanto le statistiche pre-questo-studio dimostravano) e che la legislazione stessa americana impedisce a molti di questi ingegneri di varcare le frontiere del paese (ma sopratutto di rimanerci all'interno) per portarvi conoscenze di cui invece le aziende sono alla continua ricerca.
Anche il sistema scolastico americano perde colpi? L'analisi di Ben e Vivek ricorda che il tempo stringe e il momento migliore per il sistema accademico per rispondere in tempo utile alle sfide legate alla globalizzazione non è domani ma ieri.

It's well worth the reading:
http://www.riponsociety.org/forum107k.htm
http://www.businessweek.com/smallbiz/content/feb2007/sb20070226_468122.htm

More info:
http://www.cggc.duke.edu/projects/outsourcing/outsourcing_papers.html

Sfide nanotech

"ETHICAL CHALLENGES AND ENVIRONMENTAL RISKS IN NANOSCIENCE RESEARCH AND EMERGING TECHNOLOGIES"

Workshop organizzato dalla Pratt school, Nicholas School, Graduate School e il Kenan Institute for Ethics per discutere la sostenibilità, i rischi e le sfide etiche legate all'utilizzo di queste nuove tecnologie. Relatori della conferenza sono stati Dr. Dan Vallero, Adjunct Associate Professor, Civil & Enviro. Engineering e il Dr. Mark Wiesner, Professor of Civil & Enviro. Engineering, entrambi della Duke University.
Dopo una prima parte dedicata alla spiegazione dell'impatto delle nuove tecnologie e un'analisi del rischio associato a queste tecnologie, in particolare confrontandolo con quello di altri settori "consolidati" (raffinazione petrolio, farmaceutico,...) si è svolta un interessante discussione tra gli uditori , a gruppi, per applicare le tematiche affrontate nella prima sessione a un caso "virtuale" di azienda nanotech.

Interesting Link:
http://wiesner.cee.duke.edu/